A Casa

a casaAppena atterrato a Pisa dopo un volo lungo e noioso da New York, aveva deciso di proseguire per Lucca in treno. Caricata la pesante valigia sul primo vagone del convoglio in sosta all’aeroporto, si era concesso un primo momento di riflessione su se stesso da quando aveva lasciato l’America.
Era un po’ disturbato dal tempo. Aveva pensato che i luoghi a lui cari lo avrebbero accolto con una radiosa giornata di primavera. Invece aveva trovato un’uggiosa giornata di aprile con quell’acquetta, fine fine, che piace tanto ai contadini.
A lui dei lavoratori della terra non importava proprio niente. Gli dava noia l’umido; gli succedeva anche a New York. Insomma, “eccomi qui”, disse in un sospiro tanto per avviare il proprio ragionamento. La stanchezza del viaggio cominciava però a farsi sentire e, pur non volendo riconoscerlo, stentava a mettere assieme i pensieri.
Era partito quasi all’improvviso da New York proprio come c’era arrivato. Il tempo per vendere il grande appartamento sulla 67 East Street, di salutare l’ultima delle sue “fidanzate” e di avvertire i pochi amici che si era fatto in quegli anni: e via in taxi verso l’aeroporto. Si era trascinato dietro una sola valigia dove aveva riposto, ordinatamente, l’ unico tesoro tangibile a cui teneva: una bella collezione di cucchiaini d’argento spaiati. Di tutti i tipi, di tutte le fogge, una vera meraviglia che gli era costata ore di discussione alla dogana. Da quando l’aveva ripresa dal nastro girevole dell’aeroporto di Pisa si era sentito più tranquillo e meglio disposto ad affrontare i pensieri prima insidiati dall’ansia di non trovare all’arrivo il prezioso bagaglio.
Fatto sta che, da quando era andato in pensione, non se l’era più sentita di vivere in America. Improvvisamente tutto gli era diventato estraneo, difficile, incomprensibile come quando era appena arrivato. O forse di più; perché allora, tanti anni prima, c’era stato il gusto dell’avventura a distrarlo, la curiosità del nuovo, la voglia di mettersi alla prova sebbene, nella vita, fosse sempre stato un indolente e un menefreghista.
Già, ma perché era partito? Neppure se lo ricordava più bene. Anzi no, era stato suo cugino Luigi a chiamarlo. Lavorava nelle costruzioni e gli mancava un ingegnere bravo che sapesse parlare italiano e seguire gli operai quasi tutti di quel paese o spagnoli. Non che stesse male a casa sua a Lucca ma, insomma, era andato e, quando Luigi si era trasferito in California per unirsi a un gruppo buddista che mangiava solo erba, aveva rilevato l’azienda per una cifra abbastanza modesta. Poi, stancatosi anche lui di vivere in cantiere, l’aveva venduta e ci aveva guadagnato parecchio. Dopodiché aveva cambiato mestiere ed era diventato professore di ingegneria civile all’università. Anche lì si era trovato bene; insomma, qualche noia c’era stata, ma roba da poco. A disturbarlo erano stati soprattutto i colleghi, tutti avidi di carriera, gelosi, molto sospettosi e sempre terrorizzati dal timore di un improvviso licenziamento. I pochi di loro che gli si erano rivolti dicendo «Italiani, pastasciutta e mandolino», li aveva sistemati a dovere con specifici riferimenti alla provenienza dei loro rispettivi antenati suggerita dal colore della pelle o dalla forma degli occhi. Perché, a dire il vero, in America, di americani ce n’erano restati pochi perfino all’università.
Il treno stava partendo mentre un ultimo viaggiatore arrivava trafelato fermandosi poi di botto nel rendersi conto di quanto fosse inutile il suo tentativo di afferrarlo al volo. Lui, seduto dalla parte del finestrino, sentì improvviso il bisogno d’abbassare il vetro e di rivolgere un saluto allo sfortunato.
«Ciaooooo!». Quello che gli uscì dalla gola fu poco meno di un raglio mentre l’oggetto della sua attenzione lo guardava esterefatto, accompagnando l’occhiataccia con una comprensibile parolaccia.
Ci rimase male, non tanto per quel che si era sentito dire quanto per l’esito sfortunato della sua prima parola in italiano da quando era sceso dall’aereo. Decise che, da allora in poi, avrebbe cominciato a pensare nella sua lingua anziché in inglese, così per riprenderci l’abitudine.
L’incidente, inoltre, aveva interrotto il filo dei suoi pensieri. E il primo che gli venne in mente nell’idioma degli avi non gli piacque affatto tanto era complicato. Decise di lasciarlo in sospeso perché il brutto panorama che vedeva sfilare fuori dal finestrino gli suggeriva di essere prossimo alla stazione di Pisa.
Sceso dal treno un po’ frastornato, si chiese da che parte andare per prendere la coincidenza per Lucca. Si aspettava che rivedere un luogo conosciuto come quello – non si possono dimenticare gli anni dell’università – gli avrebbe prodotto un groppo alla gola. Invece niente di niente, non sentiva proprio nulla, solo un po’ di fame. Forse la stazione si era un po’ trasformata negli anni; era più grande, più rumorosa ma, nell’insieme, era rimasta quella che era.
Il treno per Lucca sarebbe partito fra circa un’ora. C’era tempo per mangiare e bere qualche cosa. Trascinata la valigia verso il bar, pensò di mettersi a un tavolino all’aperto, sotto la pensilina per osservare i treni e tutto quell’andirivieni reso più lucido dalla pioggia insistente. Una stazione all’aperto! O meglio a tettoie. Non ci aveva mai pensato.
Gli venne da ridere rammentando New York, o meglio la sotterranea di New York con tutte quei binari intrecciati, gli odori freddi di chiuso provenienti dai tunnel e quei tarponi grigi, grandi come conigli, che si aggiravano dentro alle buche delle rotaie come in un’interminabile prigione. Gli avevano sempre fatto schifo quegli animali aggressivi e sempre affamati. Niente a che vedere con i topolini, neri neri, della metropolitana di Boston; amichevoli, timorosi e sempre in movimento. Non c’era niente da fare, anche i roditori, in quella città, erano più eleganti che da altre parti.
La fame cominciava a dargli veramente fastidio ma il cameriere non arrivava. Così, tanto per ingannare il tempo, pensò di mettere alla prova, questa volta più seriamente, il suo italiano:
«Scusi», chiese a una ragazzina che passava proprio davanti a lui, «che ore sono?»
«E perché non guarda il suo orologio?», rispose lei con fare saputo allontanandosi velocemente su tacchi vertiginosi resi più alti dalle zeppe sotto le suole.
Si sentì sprofondare dalla vergogna perché quella bimba sui trampoli con un anello al naso aveva ragione. Il suo orologio non era certo di quelli che passavano inosservati, pieno com’era di congegni e quadranti. Per di più lui si era subito preoccupato, all’arrivo, di rimetterlo sul fuso orario giusto, minuto più, minuto meno. L’incidente lo convinse a rimandare altri tentativi di comunicazione solo dopo essere giunto a destinazione.
Gli venne voglia di grattarsi la testa; l’Italia gli complicava i pensieri. O forse era solo la stanchezza e poi quel cameriere che sembrava non arrivare mai. Per distrarsi, pensò di riprendere i pensieri lasciati da parte ma anche quelli erano molto difficili. Dunque, il punto era il seguente: era tornato in Italia, o meglio a Lucca. Questo era chiaro, altrimenti cosa ci avrebbe fatto a quel tavolino? Ma non voleva, non intendeva sentirsi un emigrante; né tanto meno comportarsi come uno di loro. Nell’età della globalizzazione, di internet, della società multietnica, multirazziale, multilingue era assurdo pensare a se stesso come un esule sulla via del ritorno. Era andato via e era tornato. Punto e basta. Nel frattempo le cose erano cambiate. A Lucca non aveva più nessuno; suo fratello era morto due anni prima, suo nipote si era trasferito a Milano. Dei vecchi amici neppure a parlarne. Chissà dove erano finiti.
L’unica persona alla quale aveva comunicato la sua intenzione di tornare, se non altro per vecchi motivi di lavoro, era stato il prof. Sestani dell’Università di Pisa il quale gli aveva risposto con una e-mail festosa che si chiudeva con questa frase: «Evviva, un cervello che torna!».
Quelle parole lo avevano fatto inorridire. Perché si era immaginato se stesso come un ammasso umidiccio rosato, oblungo e pieno di innervazioni con due gambette corte e due braccine mentre procedeva un po’ storto trasportando, a fatica, una pesante valigia piena di cucchiaini d’argento. Questa dei «cervelli che tornano» era proprio una fissazione degli italiani, borbottò fra sé, come se lui venisse dall’altra parte della luna. La digressione cerebrale lo aveva distratto per non più di una manciata di secondi. Restava, invece da risolvere la questione principale: se non era un emigrante sulla via del ritorno, chi era? E perché aveva deciso di lasciare tutte le sue comodità per raggiungere un luogo che sentiva come casa pur non avendoci più niente a che fare?
All’improvviso capì di non potere risolvere tante questioni assieme al tavolino di un bar. Distrattamente guardò l’orologio; mancavano pochi minuti alla partenza del treno. Afferrata la valigia che gli parve assai più pesante di prima, corse verso la locomotrice in partenza sul binario uno. Mentre accelerava i passi tenendosi la mano libera sul petto, temette di scorgere dietro uno dei finestrini del primo vagone l’uomo che aveva salutato maldestramente all’aeroporto. Ebbe un attimo di sbandamento, poi si aggrappò al volo alla lunga maniglia esterna facendo forza sulla porta già mezza chiusa. Ancora senza fiato, si trovò catapultato all’interno del vagone, proprio di fronte a un controllore fermatosi a guardare la scena.
«E’ questo il modo di prendere il treno?» gli chiese dando un’occhiata alla pesante valigia che solo per caso non gli aveva sfondato uno stinco.
«Mi scusi, vengo da New York», gli rispose lui sentendosi molto stupido per quelle parole senza senso.
«E laggiù, si monta in treno così?», chiese l’altro incuriosito e sarcastico reclinando un po’ il capo da una parte per sentire meglio la risposta.
«Non volevo dire questo. E’ che sono stanco, che è parecchio che non parlo italiano…»
«Ma lo capisce bene, vero?»
«Certo, sono di Lucca».
«E io, di Livorno. Biglietto».
«Che biglietto?»
«Il biglietto del treno, quello dell’aereo non mi serve».
«Ma io non ce ’l’ho, mi sono dimenticato di comprarlo, posso acquistarlo ora da lei?»
«No, mi dispiace, devo farle la multa».
«Ma…»
«Trentamila», disse il controllore senza alzare gli occhi dalla macchinetta super accessoriata che espanse nell’aria una strisciolina di carta con un fruscio simile al sospiro di un angelo.
Pagò senza dire altro ringraziando la sua previdenza d’avere cambiato subito all’aeroporto i primi dollari in euro. Altrimenti con quel livornese sarebbero stati problemi. Poi, trascinando stancamente la valigia lungo il corridoio sulla destra, si mise a sedere con un gran sospiro.
Ora mi riposo, si disse chiudendo gli occhi.
«Si sente male, vuole chi chiami il controllore?» Gli chiese una signora anziana seduta davanti a lui.
«No, signora, grazie, sono solo un po’ affaticato. E poi il controllore già lo conosco».
«Da dove viene? Non mi pare che sia di queste parti». Replicò la donna che aveva una gran voglia di chiacchierare.
«Infatti, vengo da New York, ma sono di Lucca».
«Allora torna a casa: è un emigrante!»
«No, signora, non sono un emigrante, sono semplicemente uno che ricompare dove è nato».
«E che dicevo io, allora è un emigrante!».
Serrò gli occhi di nuovo sperando di non essere più disturbato dalla donna che fortunatamente scese a San Giuliano. Li riaprì poco dopo per guardare fuori dal finestrino e vedere quante cose fossero cambiate durante la sua assenza. Dopo dieci minuti il treno giunse a Lucca. Il sole stava tramontando e aveva smesso di piovere.
Attraversò l’atrio della stazione velocemente per arrivare fra i primi alla fermata dei taxi. Voleva raggiungere l’albergo alla svelta, farsi una doccia e una bella cena. Tutto il resto poteva aspettare. Appena uscito sulla piazza si guardò attorno un po’ sorpreso. Non che le cose, anche lì, fossero molto cambiate. Però il suo sguardo andando oltre la piazza e lo schermo degli alberi che circondavano la fontana, era entrato in contatto con una breve porzione della cortina delle mura. Già, le mura. Chissà perché nella sua vita americana, non le aveva mai ricordate come un oggetto a se stante. Le aveva sempre incluse nel modo in cui pensava e ricordava la sua città.
Attratto da quel rosso lontano dei mattoni, stabilì di proseguire a piedi; tanto l’albergo non distava molto. Passata porta San Pietro, pensò di salire un attimo sulle mura senza neppure badare al peso della valigia.
Ecco, lì le cose erano veramente cambiate: meno asfalto, meno platani e neppure una macchina proprio come quando ci andava da bambino. A quel pensiero, un’onda di ricordi lo sommerse senza fargli alcun male; anzi. Risentì la voce di suo fratello che gli gridava di andare a riprendere la palla, le bestemmie a mezza voce del nonno perché lui e Gino si erano nascosti fra l’erba di un baluardo per non farsi portare a casa. E poi la vide; ma quella era la panchina dove aveva dato il primo bacio a Gemma! Più che un bacio si era trattato di una zuccata vera e propria per la rapidità dell’effusione e la sua scarsa precisione nella mira dovuta a incompetenza e timidezza giovanile.
A quel ricordo gli venne da ridere; chissà dov’era finita Gemma. Qualcuno gli aveva detto, in passato, che si era fatta strada nel settore alimentare e che aveva una banda di figlioli.
Si sentiva bene, anzi gli era andata via anche la fame. Appoggiata amorosamente la valigia sotto la panchina, si sdraiò sulle fredde assi di ferro e guardò verso l’alto per vedere il cielo e le prime gemme degli alberi. Era tanto, davvero, che non stava bene così, senza pensieri complicati, senza orari e con tutti quei bei ricordi. Era tornato a casa e poi che male c’era a sentirsi un’emigrante e a essere chiamato come tale anche nell’era della globalizzazione? Chiuse gli occhi per meglio ascoltare il rumore delle ultime gocce che cadevano dagli alberi e l’odore fresco della terra. Suoni e profumi che, senza saperlo, gli erano rimasti fissi nella testa.
“Accidenti che umido!” disse ad alta voce ridendo di se stesso.

Dinda

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